Resistenza portoghese

A Teatro il default non ferma il Festival di Almada che regala ancora una volta un’edizione di livello, confronto fra la scena europea e quelle africane e latinoamericane A teatroIl default non ferma il Festival di Almada che regala ancora una volta un

Si è appena concluso il Festival di Almada, la più importante manifestazione teatrale di tutto il Portogallo, alla sua 29° edizione. Negli anni la rassegna ha conquistato un suo denso peso specifico, perché Almada ha acquisito dalla sua posizione strategica proprio di fronte a Lisbona, sulle rive del Tago, un ruolo di ponte indispensabile, di conoscenza e di confronto, tra la scena europea e quelle africane e latinoamericane. Purtroppo la situazione economica del paese è notoriamente critica: il Portogallo come l’Irlanda e la Grecia è stato tra i primi nell’area euro a rischiare il default, e i tagli si sono fatti sentire pesantemente, come da noi a cominciare da quelli alla cultura. Quest’anno la scure di quelli governativi ha segnato il 38 per cento in meno del budget, senza contare il venir meno di sponsorizzazioni da parte di enti ugualmente colpiti dalla crisi. Resiste solo l’investimento della giunta municipale, una delle ultime social-comunista.

Ma nonostante questo il festival di Almada non solo si è tenuto egualmente, ma pur restringendo il proprio cartellone numericamente, è riuscito a garantirsi un livello e una ricca varietà di materiali di tutto rispetto. Grazie alla tenacia e all’impegno dei due direttori, Joaquim Benite e il suo vice Rodrigo Francisco, non solo la vetrina della scena locale ha mostrato molte novità, quelle più tradizionali come altre maggiormente spinte su una linea di ricerca, ma non sono mancati i grandi nomi internazionali, meno scontati di quelli che ricorrono nei festival italiani. I quali forse dovrebbero informarsi dai responsabili della rassegna lusitana, su come si possano fare «risparmi» anche drastici, senza cadere nella assoluta mancanza di fantasia artistica.

Proprio l’Italia, e la sua scena, sono state tra le prime e clamorose vittime del taglio: la rassegna che era stata progettata assieme al nostro ministero per portare sull’Atlantico i nomi più significativi delle ultime generazioni, è stata rinviata all’anno prossimo, si spera. Unica presenza dall’Italia è rimasta quindi quella del Centro di Pontedera, che ha presentato il suo spettacolo su Pessoa, e proprio nei luoghi dello scrittore portoghese, una kermesse di molte biciclette a lui dedicata. Con grande curiosità e gradimento da parte del pubblico locale.

Tra i grandi nomi della scena europea c’erano, accanto ai francesi che da sempre hanno un legame preferenziale con il festival (proprio in quei giorni, il direttore Benite ha ricevuto dal governo di Parigi la massima onorificenza in campo culturale) c’erano artisti del calibro di Peter Stein e di Christoph Marthaler, che in Italia sembriamo condannati a non poter vedere. Stein ha presentato per due sere la sua Faust Fantasia, personale tributo di devozione a Goethe e alla sua creatura, elaborato dopo che ad Hannover nel 2000 aveva realizzato la maratona di 19 ore con il Faust primo e secondo. Questa Fantasia, di poco più di un’ora su una partitura per piano di Arturo Annecchino, è interessante perché permette di entrare nel rapporto privatissimo tra un grande regista e un suo testo d’affezione.

Quello di Marthaler è invece uno spettacolo di grandi dimensioni, dal titolo + – 0, un campo base subartico. Nato durante un soggiorno di lavoro in Danimarca, quando il regista cominciò a incuriosirsi della vita in Groenlandia, che al regno danese appartiene, lo spettacolo racconta nel più puro stile del regista svizzero, regole e riti (e conseguenze pratiche) del vivere in un luogo in cui tra il dentro e il fuori ci sia una escursione termica fortissima. La Terra verde impone infatti alcune necessità minimali, come il cambiarsi ogni volta completamente di abito e calzature, ma anche diverse modalità fisiche e di relazione. Ed è questo che ha affascinato la curiosità antropologica di Marthaler. In quella grande sala che contiene cucine, ingresso, palestra, soggiorno e punto di raccolta, Anna Viebrok che da sempre è l’occhio suo scenografico, ha freddamente disegnato un mondo istituzionalizzato da bisogni elementari. Ma dove le dinamiche interpersonali possono assumere una violenza, o al contrario venir attutite, in misura incontrollata. Quel gruppo di una dozzina di persone è di fatto un gruppo «separato», sia pure per mere cause atmosferiche, come lo è in teatro quello degli attori, ed anche quello del pubblico secondo importanti teorici del 900. È infatti proprio la ripetitività dei gesti, o qualche iniziativa che rompe quell’armonia forzata, a innescare ogni tanto piccole esplosioni di individualismo che non hanno sbocco in quella agghiacciante (e letteralmente agghiacciata) realtà virtuale. Ancora una volta Marthaler, partendo da una situazione limite, è capace di proiettare in una situazione «in vitro» comportamenti, debolezze e follie di una umanità costretta, priva della libertà di scegliere. E riesce così a trasformare quella suggestiva cartolina dal Polo nord in una radiografia esasperata della nostra quotidianità. Con tutte le piacevolezze e le rigidità che ci troviamo ad affrontare, per scelta o per forza.

Sarebbero moltissimi gli altri spettacoli di cui meriterebbe raccontare, ma quello che va assolutamente citato è una creazione della Compagnia nazionale di balletto. Che a differenza delle istituzioni nostrane, pratica con bella confidenza soprattutto il 900. Così che ha potuto mostrare un cortometraggio in cui La valse di Ravel viene raccontata prima nella sua genesi con annessi tormenti dell’autore, per divenire poi puro movimento dei corpi dei danzatori della compagnia, che fanno ben trasparire come l’omaggio valzerino a Strauss contenga invece il caos generalizzato degli anni della prima guerra mondiale. E subito dopo gli stessi danzatori , dal vivo, danno corpo e angolature a quel capolavoro assoluto, summa del secolo scorso, che è La sagra della primavera (ma sarebbe meglio dire «consacrazione alla» o «sacrificata alla») di Igor Strawinski. Nonostante il precedente ingombrante della versione Bausch appena rilanciato da Pina di Wenders, la coreografa Olga Roriz trova un linguaggio originale capace di far parlare i corpi, le loro paure, aspirazioni, dominii, tremori, dolori. Uno spettacolo bellissimo e inquietante, che anche dalle rive dell’Atlantico parla all’Europa intera, di ieri e di oggi.

Il Manifesto
in Il manifesto, 21 jul 2012

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